Hate speech, Claudia Bianchi

Il lato oscuro del linguaggio ce lo racconta Claudia Bianchi nel suo ultimo saggio sull’argomento, uscito per Laterza nel febbraio di questo 2021, che, dopo un anno passato a vivere nella propria più o meno (a volte per niente) idilliaca stanzetta, insieme alla libertà, ci ha portato quella che mi è sembrata una presa di coscienza generale sul ruolo che la lingua, e soprattutto l’uso che se ne fa, svolge all’interno di un sistema sociale. Grazie a un linguaggio preciso e uno sviluppo del discorso mai contorto, Bianchi riesce a restituire al lettore il risultato del suo viaggio nell’hate speech, rivelandone – mi verrebbe quasi da dire puntando un faro su – i meccanismi e le modalità attraverso cui questo agisce.
Da buona fan di Caparezza, mi sento di dover fare una premessa: a causa del mio percorso universitario non sono totalmente estranea all’argomento trattato da Bianchi, quindi è possibile che avendo già una base, almeno per quanto riguarda il gergo, mi sia risultato di più agevole lettura. Però, credo davvero che sia un testo per tutti e, soprattutto, che valga la pena leggerlo, in primis, perché la questione è più che mai attuale, poi, perché, in una realtà in cui siamo costretti a imparare parole nuove quasi ogni giorno, è importante diventare parlanti consapevoli e, infine, perché credo che sia un ottimo esempio di saggio. Uno di quelli che spiega per bene, che ti dice il giusto e non ti sommerge di informazioni accessorie. Un buon maestro che vuole renderti partecipe del procedimento, non solo del risultato finale.

Ogni capitolo è introdotto da un prologo in cui, partendo da episodi di romanzi celebri, Bianchi esemplifica gli argomenti che tratterà. La poco rispettosa proposta di matrimonio che il sig. Collins rivolge a Elizabeth Bennet – capitolo primo – è, a mio avviso, ottimale per introdurre il primo fenomeno conversazionale di cui Bianchi tratta: l’ ingiustizia discorsiva. Al fruitore appare evidente (o dovrebbe farlo) che la sig.na Bennet non sta facendo la preziosa, ma sta rifiutando in maniera netta e definitiva la proposta del cugino, eppure… Com’è possibile tutto ciò? Perché le parole della sventurata non raggiungo l’obiettivo?
La risposta della professoressa parte dalla teoria degli atti linguistici di John Austin, ovvero la teoria che spiega come si fanno le cose con le parole, di cui fa una piccola summa per poi addentrarsi nel merito fenomeno che, insieme alle parole e ai discorsi d’odio, è il protagonista del saggio. Che la teoria di Austin fosse qualcosa di grandioso lo avevo già intuito durante la preparazione dell’esame di filosofia del linguaggio, ma la sua applicazione quotidiana lo è ancora di più, come ho già detto sopra, in una società come la nostra, decidere di rimanere parlanti “ingenui” risulta davvero cringe, sì proprio così, è questa la sensazione che nasce nel prossimo quando si usano epiteti discriminatori con leggerezza, va poco bene a vent’anni e già a 25 va molto male. L’analisi di questi epiteti “nella loro dimensione performativa, e interpretati come fattori insidiosi di gerarchia e ingiustizia sociale” presente nella seconda metà del libro dovrebbe essere letta da tutti, da coloro che credono che la questione del linguaggio inclusivo sia sintomo di una parità raggiunta da così tanto che inizia a puzzare e da quelli che in un linguaggio paritario ci credono davvero e per cui lottano ogni giorno con i loro mezzi – e sui mezzi –, perché in questo libro ci sono le risposte giuste sia per una fazione che per l’altra.

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